Il mondo al tempo di Cesare

Roma antica L’imperialismo romano e la crisi della repubblica

La vittoria nella seconda guerra cartaginese proiettò Roma verso dimensioni di potenza egemone nel mondo occidentale e la spinse – non senza forti contrasti politici circa l’opportunità di tale strategia – a rivolgere la sua attenzione verso l’Oriente. Una serie di guerre vittoriose contro gli stati ellenistici di Macedonia (200-196 a.C.) e di Siria (192-189 a.C.) rese i romani padroni assoluti dell’intero Mediterraneo. La potenza di Roma fu ribadita nel 146 a.C. dalla distruzione di Cartagine – la “terza guerra punica” – e di Corinto, due atti imperialistici non giustificati se non come manifestazioni dissuasive di forza. La trionfale espansione militare coincise tuttavia per Roma con un periodo di gravi difficoltà interne. La classe dirigente romana era allora formata da due categorie di persone che traevano la maggior parte della loro ricchezza, e quindi il loro potere, rispettivamente dalla proprietà fondiaria o dalle attività mercantili. Il prevalere degli interessi dell’uno o dell’altro gruppo condizionava le scelte politiche della repubblica. Accanto alla classe senatoria latifondista si era progressivamente accresciuta la forza della “nuova” classe dei cavalieri, che monopolizzava il commercio e godeva della lucrosa esclusiva degli appalti delle opere pubbliche e della riscossione delle tasse. Mentre al vertice si consolidava tale situazione, problemi ben più gravi investivano i gradini inferiori della scala sociale e soprattutto la massa dei contadini, che costituiva la stragrande maggioranza della popolazione attiva romana: la crisi economica e produttiva determinata dal prolungarsi delle campagne militari aveva provocato la rovina di moltissimi piccoli proprietari terrieri e diffuso la disoccupazione. In un clima di sempre più gravi e pericolose tensioni intestine le riforme, pur non rivoluzionarie, tentate a distanza di circa dieci anni l’uno dall’altro (tra il 133 e il 121 a.C.) dai fratelli tribuni della plebe Tiberio Gracco e Caio Gracco, fallirono a causa della miopia politica e dell’egoismo di classe dei gruppi di potere. Alla fine del II secolo a.C. il dominio consolidato di Roma comprendeva, oltre all’ltalia, sette province (Asia, Africa, Macedonia, Spagna Citeriore e Ulteriore, Sicilia, Sardegna e Corsica). A dispetto di un’apparente solidità, lo stato romano soffriva però di una profonda debolezza, provocata dai problemi sociali e da una lotta intestina per il potere che era giunta ormai ai limiti della guerra civile. Il I secolo a.C. fu caratterizzato in effetti dal progressivo esaurirsi delle istituzioni repubblicane, dalla personalizzazione del potere e dalla transizione verso forme di governo autoritarie e tendenzialmente monarchiche. Le redini della politica finirono allora nelle mani di uomini forti, che approfittarono della debolezza dello stato per imporre la loro volontà: si trattò in prevalenza di generali che negli anni delle guerre di espansione avevano stretto con le loro truppe legami saldissimi fino a farne dei veri e propri eserciti personali. Gli eserciti, d’altra parte, erano ormai composti da soldati di mestiere, fedeli al comandante che offriva loro le migliori opportunità di guadagno e disposti a seguirlo anche qualora infrangesse le leggi della repubblica. Nei primi due decenni del secolo lo scontro tra Caio Mario e Lucio Silla si concluse con il trionfo di quest’ultimo, che per quattro anni (83-79 a.C.) governò da dittatore con il pieno sostegno del senato. Alla sua morte, nel 78 a.C., la crisi della repubblica precipitò ulteriormente. Le rivolte di Sertorio in Spagna e la rivolta schiavile di Spartaco (73-71 a.C.) in territorio italico furono soltanto gli episodi più gravi di una situazione di guerra civile permanente, che non risparmiava nessuna area geografica e sociale dello stato romano. Sulla scena politica comparvero allora Gneo Pompeo e Giulio Cesare. Il primo, generale sillano, creò la sua fortuna politica eliminando il flagello dei pirati che sconvolgevano i traffici commerciali di tutto il Mediterraneo e conquistando stabilmente per Roma l’intero Medio Oriente fino al confine con il regno dei parti. Il secondo, patrizio di simpatie mariane, avrebbe acquisito a Roma l’intera Gallia con una campagna di conquista durata dal 59 al 50 a.C. In quegli anni, mentre la crisi sociale ed economica in Italia toccava l’apice e strati sempre più ampi della popolazione delle campagne e delle città formavano ormai una massa indifferenziata di indigenti, il senato non era più in grado di affrontare la situazione. Per alcuni anni la guida dello stato passò allora di fatto nelle mani di un triumvirato (60 a.C.) formato da Pompeo, da Cesare e dal ricco senatore Crasso, che svolsero una politica moderata di sostanziale equidistanza dal senato e dalla plebe. Mentre però Cesare era ancora impegnato in Gallia, morto Crasso in Oriente durante una guerra contro i parti (53 a.C.), Pompeo si riavvicinò decisamente al senato e ruppe l’alleanza con Cesare. La guerra civile che ne seguì si protrasse fino al 48 a.C., quando l’esercito di Cesare sconfisse quello di Pompeo a Farsalo. Pompeo, fuggito in Egitto, vi trovò la morte. Ritornato a Roma nel 46 a.C., Cesare governò dando corpo a un organico piano di riforme che avviarono a soluzione alcuni nodi della crisi ormai secolare della repubblica. Ma il suo potere di monarca occulto, sostenuto dal consenso popolare, risultò intollerabile per gli interessi dei senatori e per i sostenitori più intransigenti della tradizione repubblicana: Cesare fu assassinato in senato il 15 marzo del 44 a.C., le idi di marzo secondo il calendario romano.