L’analfabetismo in Italia nel 1870

Italia L’Italia nell’età liberale

L’Italia unita si trovò a dover affrontare i problemi complessi dell’unificazione amministrativa ed economica e, in campo internazionale, l’ostilità dell’Austria e della Chiesa. Il paese era fortemente arretrato, con uno sviluppo industriale assai limitato e gran parte dell’agricoltura, specie nel sud, in uno stato di debolezza cronica. Dopo la morte di Cavour nel giugno 1861, la classe politica si divise in una Destra, formata dai liberali moderati cavouriani, e in una Sinistra, costituita dai liberali progressisti. Il regime politico assunse un carattere accentuatamente oligarchico, con un suffragio assai ristretto (circa il 2% della popolazione). Volendo sanzionare l’egemonia piemontese e temendo i pericoli delle accentuate diversità regionali, la Destra al potere instaurò nel nuovo regno un centralismo burocratico di tipo francese. Nel 1862 Garibaldi tentò di liberare Roma, ma venne fermato dalle truppe regie, ferito sull’Aspromonte e posto agli arresti. Dietro pressioni della Francia, intesa a ottenere la rinuncia alla conquista di Roma, il governo trasferì nel 1865 la capitale da Torino a Firenze. Nel 1866 l’Italia si alleò con la Prussia contro l’Austria. Pur avendo subìto clamorose sconfitte a Custoza e nella battaglia navale di Lissa, essa ottenne, grazie alle vittorie prussiane, il Veneto dall’Austria (terza guerra di indipendenza). Nel 1867 Garibaldi rinnovò il tentativo di liberare Roma, ma fallì per l’opposizione delle truppe francesi a Mentana. Scoppiata la guerra franco-prussiana nel 1870, non essendo più in grado la Francia di proteggere Roma, questa venne occupata dalle truppe italiane il 20 settembre ed elevata a capitale del regno. Pio IX denunciò lo stato italiano come usurpatore; e in conseguenza i cattolici proclamarono la loro astensione dalla vita pubblica (non expedit). Lo stato liberale allora regolò in maniera unilaterale i rapporti con la chiesa, a cui venne assicurata piena indipendenza, con la legge delle guarentigie (1871). L’unità nazionale era ormai completata, ma persistevano gravi problemi interni. Nel 1872, in uno stato di isolamento politico, morì Mazzini. Gravissima si presentava la situazione nel sud: i contadini, che avevano sperato invano in un’ampia riforma agraria, alimentarono nel primo decennio della storia unitaria un massiccio brigantaggio, sfruttato da borbonici e papalini, e represso spietatamente dall’esercito nel corso di una vera e propria guerra civile. Le terre dell’asse ecclesiastico e dei demani comunali erano finite per lo più nelle mani delle classi agiate. L’industria meridionale, incapace di reggere alla concorrenza nel quadro di una legislazione liberistica, quasi scomparve. Nel paese si costituì un blocco sociale dominante formato dalla borghesia settentrionale e dai grandi proprietari meridionali. Studiosi come Pasquale Villari, Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino e Giustino Fortunato portarono l’opinione pubblica a conoscenza della questione meridionale. L’opera della Destra fu in ogni caso imponente. Nel 1865 l’unificazione legislativa era ormai un fatto compiuto. La rete ferroviaria ebbe grande sviluppo. Le finanze pubbliche, a prezzo di un implacabile fiscalismo che gravò specie sulle masse popolari (tassa sul macinato), vennero risanate grazie agli sforzi di Quintino Sella, che portò il bilancio al pareggio. Il malessere agrario era diffuso e vi furono ripetuti disordini nelle campagne. Nel 1876 la Destra cedette il potere alla Sinistra guidata da Agostino Depretis che, rimasto al potere quasi ininterrottamente dal 1876 al 1887, si rese interprete delle esigenze di allargamento delle basi del sistema politico. Depretis invitò gli esponenti della Destra a “trasformarsi” e a convergere con la Sinistra (trasformismo). All’opposizione intransigente si collocarono allora i repubblicani, i radicali, gli anarchici e i socialisti. Importanti le riforme: nel 1877 fu approvata la legge Coppino sull’istruzione elementare obbligatoria (rimasta poi largamente disattesa); nel 1879 fu abolita la tassa sul macinato; nel 1882 una riforma elettorale portò il corpo degli elettori dal 2,2 al 6,9%, escludendo però ancora le masse contadine. Per strappare l’Italia all’isolamento internazionale, nel 1882 fu firmata la Triplice Alleanza, in funzione antifrancese, con Prussia e Austria. Le agitazioni irredentistiche nel Trentino e a Trieste, ancora sotto la dominazione austriaca, vennero perciò frenate. Nel 1882 Depretis avviò il paese verso una politica coloniale largamente fallimentare, alimentata dalle speranze di alleviare le tensioni sociali interne. L’occupazione di Massaua nel 1885 provocò un conflitto con l’Etiopia conclusosi con la sconfitta di Dogali (1887). Morto Depretis, salì al potere Francesco Crispi (1887-91), un ex mazziniano divenuto monarchico e fervente nazionalista e colonialista. Ammiratore di Bismarck, Crispi portò il paese a un guerra commerciale con la Francia nel 1888. Un trattato con l’Etiopia assicurò all’Italia l’Eritrea (1890). Una serie di riforme rinnovò le amministrazioni locali, rinsaldò il controllo centrale, stabilì un nuovo codice penale abolendo la pena di morte, sancì il riconoscimento del diritto di sciopero, ma introdusse anche una legge di pubblica sicurezza di segno autoritario. Crispi improntò il suo governo a un acceso anticlericalismo. Nel 1892 salì al potere Giovanni Giolitti (1892-93), il cui ministero cadde dopo lo scoppio del movimento dei Fasci siciliani, determinato da motivi di acuto disagio sociale che egli non intese reprimere con lo stato d’assedio, e in seguito al grave scandalo della Banca Romana. Nel 1893 tornò al potere Crispi, che procedette a una violenta repressione in Sicilia. Egli riprese altresì la politica coloniale, ma presso Adua gli italiani subirono nel 1896 una sanguinosa sconfitta a opera dell’Etiopia, che determinò nel paese un’ondata di agitazioni contro il governo, costretto quindi a dimettersi. Nel frattempo, negli ultimi tre decenni del secolo era andato formandosi il movimento operaio e contadino. Dopo una prima fase di influenza anarchica e di moti falliti promossi dai seguaci di Michail Bakunin, presero a svilupparsi le organizzazioni operaie e il socialismo, che trovò esponenti prestigiosi in Andrea Costa, Filippo Turati e Antonio Labriola. Nel 1891 fu fondata la prima Camera del lavoro a Milano, e nel 1892 sorse il Partito socialista. A Crispi succedette Antonio Di Rudinì (1896-98), che dovette affrontare una situazione interna divenuta difficilissima per il sommarsi di un’acuta crisi economica e dei conflitti politici e sociali. I moti di Milano, causati dalla fame, furono sanguinosamente repressi nel 1898 dal generale Bava Beccaris con centinaia di arresti nelle file dell’opposizione socialista e cattolica. Quando il generale Luigi Pelloux (1898-1900), nominato primo ministro, tentò di attuare una svolta reazionaria con il consenso del re Umberto I (1878-1900), in parlamento si sviluppò l’ostruzionismo guidato dai socialisti; e i liberali progressisti Giuseppe Zanardelli e Giolitti promossero un’energica azione di opposizione in difesa delle libere istituzioni. Dopo il successo elettorale delle opposizioni e l’assassinio di Umberto I a opera dell’anarchico Gaetano Bresci nel 1900, a un breve governo di Giuseppe Saracco succedette nel 1901 un governo Zanardelli, per volontà del nuovo sovrano Vittorio Emanuele III, deciso a chiudere la parentesi reazionaria della cosiddetta “crisi di fine secolo”. Negli ultimi due decenni del secolo fu allargata nel nord la base, assai ristretta, dell’industrializzazione. Intorno al 1880 la rete ferroviaria era completata. Per favorire l’industria nazionale, fu varata (1878 e 1887) una legislazione protezionistica, che giovò agli agrari meridionali con l’imposizione del dazio sul grano. Il Mezzogiorno rimase in preda a un accentuato sottosviluppo, la crisi agraria provocò agitazioni contadine, specie nella Bassa padana e nel Sud e indusse oltre due milioni di contadini a emigrare. Per esigenze anzitutto militari, lo stato promosse la nascita di un’industria siderurgica (fondazione della Terni). Il vero e proprio decollo industriale dell’Italia si ebbe tra il 1896 e il 1914, e coincise largamente con il periodo di governo di Giolitti. Nel 1911 si contavano 4.400.000 addetti all’industria, largamente concentrata nel nord e specie nel “triangolo industriale” (Milano-Torino-Genova). L’agricoltura capitalistica aveva sede soprattutto nella pianura padana. Nel 1906 sorse la Confederazione generale del lavoro e nel 1910 la Confederazione italiana dell’industria. Ministro degli Interni nel 1901, Giolitti si dimostrò favorevole a nuovi e più dinamici rapporti nelle relazioni di lavoro, assicurando la neutralità dello stato nei conflitti di natura economica. Nominato nel 1903 presidente del consiglio, Giolitti, che formò il suo secondo ministero (1903-1905), invitò significativamente il capo dei socialisti riformisti, Turati, a entrare nel governo; ma ottenne un rifiuto. Le elezioni del 1904, seguite a un grande sciopero generale, rafforzarono Giolitti. Accanto allo sviluppo del movimento operaio e socialista, si ebbe quello del movimento cattolico, diviso in clerico-moderati, inclini ad appoggiare i liberali contro i socialisti, e “democratici cristiani” di tendenze progressiste, in concorrenza con i socialisti nell’organizzazione dei contadini e delle masse lavoratrici specie agricole e ostili ad accordi politici con i liberali. Dopo due brevi governi di Alessandro Fortis (1905-1906) e di Sidney Sonnino (1906), Giolitti formò il suo terzo governo (1906-1909), che coincise con un periodo di crisi economica e di agitazioni sociali. Le elezioni del 1909 videro un forte rafforzamento dei socialisti e, in misura minore, dei radicali e dei repubblicani e l’appoggio dei clericomoderati in numerosi collegi ai liberali. Dopo un secondo ministero Sonnino (1909-1910) e un ministero presieduto dal giolittiano Luigi Luzzatti (1910-1911), Giolitti formò il suo quarto governo (1911-1914). Nel 1910 intanto era sorta l’Associazione nazionalista italiana, che organizzò il movimento antiliberale, antisocialista e imperialista. Il nuovo ministero Giolitti (1911-14) fu caratterizzato da eventi di grande importanza: nel 1912 fu introdotto il suffragio quasi universale maschile, che portò il corpo elettorale a oltre 8 milioni, anche per allargare il consenso alla guerra di Libia (1911-12), che suscitò un’ondata nazionalistica sostenuta dai cattolici. In Romagna il socialista Benito Mussolini e il repubblicano Pietro Nenni diressero violente agitazioni di protesta. La guerra esasperò il confronto interno al Partito socialista, portando nel 1912 all’espulsione del riformista Leonida Bissolati e l’estremista Benito Mussolini a una posizione di leadership. Per fronteggiare le elezioni del 1913, le prime celebrate con la nuova legge elettorale, e contrastare i socialisti, i liberali strinsero accordi (patto Gentiloni) con i cattolici, i quali, abbandonato definitivamente l’astensionismo, ottennero, con i socialisti, un rilevante successo, che ne dimostrò la capacità organizzativa. Dimessosi nel 1914 Giolitti, che non considerò soddisfacenti i risultati elettorali, si ebbe la formazione di un governo guidato dal liberale di destra Antonio Salandra (1914-16). In seguito a confitti di lavoro sanguinosamente repressi, nel giugno del 1914 nelle Marche e in Romagna si svilupparono moti insurrezionali (“settimana rossa”), che provocarono una violenta repressione militare.