L’estensione della rete ferroviaria italiana nel 1859

Italia Il Risorgimento

Il congresso di Vienna (1814-15), che elevò a criterio supremo la restaurazione dei sovrani “legittimi”, pose l’Italia sotto l’influenza austriaca. L’assetto della penisola risultò il seguente: sotto il dominio dell’Austria furono posti il Lombardo-Veneto, il Trentino, Trieste e parte dell’Istria; il regno di Sardegna tornò a Vittorio Emanuele I; il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla andò a Maria Luisa d’Austria; il principato di Massa e Carrara a Maria Beatrice d’Este; il ducato di Modena e Reggio a Francesco IV d’Austria-Este; il granducato di Toscana a Ferdinando III di Asburgo-Lorena; lo stato pontificio a Pio VII; il regno delle Due Sicilie a Ferdinando I. In questo quadro, il Piemonte rimase l’unico stato italiano relativamente autonomo dall’influenza austriaca. A distinguersi per una politica di restaurazione accentuatamente reazionaria fu il regno delle Due Sicilie. La Restaurazione non cancellò, almeno in parte, l’opera di rinnovamento civile e amministrativo introdotto nel periodo francese. L’età della Restaurazione vide anche in Italia la cultura politica dominata da tre principali correnti: la tradizionalista-assolutistica, la liberale moderata e quella nazionalista-rivoluzionaria, di matrice romantica. Le correnti estreme, per un verso reazionarie e per l’altro rivoluzionarie, trovarono un loro tipico veicolo nelle società segrete, la maggiore della quali diventò la carboneria, a struttura elitaria. Per impulso dei moti scoppiati in Spagna, nel 1820-21 si ebbero moti anche nel regno delle Due Sicilie e in Piemonte sotto la guida di Santorre di Santarosa. I rispettivi sovrani furono indotti a concedere costituzioni; ma la reazione prese infine il sopravvento. Il fallimento dei moti favorì la politica dell’ala più intransigente della Restaurazione. Nel Lombardo-Veneto vennero condannati Silvio Pellico e Federico Confalonieri; in Piemonte, dove nel 1821 era asceso al trono Carlo Felice, si ebbero processi e condanne a morte; a Napoli vennero impiccati gli ufficiali Michele Morelli e Giuseppe Silvati. La politica repressiva continuò nel regno dopo l’avvento al trono nel 1825 di Francesco I. Solo la Toscana di Leopoldo II si sottrasse all’ondata reazionaria. La nuova stagione rivoluzionaria europea del 1830-31 favorì lo scoppio nel 1831 di nuovi moti nell’Italia centrale i quali, partiti da Modena, si conclusero con l’impiccagione di Ciro Menotti e la repressione a opera dell’Austria. I moti misero in luce la debolezza dell’azione rivoluzionaria delle società segrete. Al fallimento dell’azione settaria vennero date due risposte diverse. L’una fu quella di Giuseppe Mazzini, che nel 1831 fondò la Giovine Italia, con un programma basato sull’unità italiana e sulla repubblica democratica come fine e l’insurrezione popolare come mezzo; l’altra fu quella dei liberali monarchici moderati e gradualisti. Fra il 1831 e il 1845 l’azione mazziniana fu ricca di fermenti ideali, ma andò incontro a una serie di insuccessi, fra cui nel 1844 quello, pur non promosso direttamente da Mazzini, della spedizione dei fratelli Bandiera in Calabria. Gli insuccessi mazziniani favorirono le correnti del liberalismo moderato, che presero piede specie in Lombardia, Toscana e Piemonte. Nel regno sardo si sviluppò la corrente “neoguelfa” di Cesare Balbo e di Vincenzo Gioberti, la quale teorizzò la funzione unificatrice del papato in contrapposizione alla corrente “neoghibellina”, che opponeva papato e unificazione italiana. Dal canto loro i lombardi Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari, peraltro privi di una seria influenza politica, sostennero un disegno di federalismo repubblicano e democratico. Il piemontese Massimo D’Azeglio denunciò con vigore nel 1846, dopo il fallimento del moto di Rimini, la sterilità dei metodi mazziniani. Mentre le Due Sicilie rimanevano con Ferdinando II sotto la cappa di un rigido reazionarismo e il papato di Gregorio XVI costituiva un esempio di malgoverno retrivo, il Lombardo-Veneto conosceva un notevole sviluppo economico e una buona amministrazione di stampo burocratico, la Toscana di Leopoldo II mostrava le maggiori aperture alle istanze del liberalismo moderato e il regno di Sardegna, sul cui trono sedeva dal 1831 Carlo Alberto, pur in un quadro di rigido conservatorismo politico, promosse riforme in campo amministrativo ed economico. Il sovrano, entrato in urto con l’Austria per questioni doganali, assurse negli anni Quaranta a campione di un nuovo spirito di indipendenza. La rivoluzione del 1848 in Francia costituì la premessa di una serie di rivolgimenti rivoluzionari che si diffusero in Europa e investirono anche l’Italia. Con un’improvvisa svolta politica, Pio IX, salito al pontificato nel 1846, aveva avviato una politica di riforme a Roma, seguito dalla Toscana e dal Piemonte. Nel 1848 a Napoli, Ferdinando II, nel quadro di una grave crisi interna, fu indotto a concedere la costituzione, imitato da Carlo Alberto, Leopoldo II e Pio IX. Scoppiata a Vienna, la rivoluzione si estese in marzo a Venezia e a Milano, liberatasi nel corso di una grande insurrezione (cinque giornate di Milano, 18-22 marzo). Sperando di poter attuare la formazione di un regno dell’alta Italia e temendo uno sviluppo democratico-repubblicano a Milano, Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria (prima guerra di indipendenza), inizialmente appoggiato anche da Firenze, Roma e Napoli, che però in un secondo tempo ritirarono le loro truppe. Ma il 25 luglio 1848 i piemontesi furono sconfitti da Radetzky a Custoza. A Venezia i democratici resistettero guidati da Daniele Manin. Anche in Toscana fu organizzato un governo democratico. A Roma, dopo la fuga a Gaeta di Pio IX, i democratici presero il potere e nel 1849 proclamarono la repubblica con a capo un triumvirato, di cui diventò membro Mazzini. Per impulso dei democratici, in Piemonte Carlo Alberto riprese nel marzo 1849 la guerra, subendo però a Novara una sconfitta definitiva, che lo indusse ad abdicare a favore del figlio Vittorio Emanuele II. Ebbe allora inizio un’azione di repressione generalizzata. Gli austriaci riportarono sul trono Leopoldo II in Toscana. La repubblica romana, difesa da Giuseppe Garibaldi, venne soffocata nel luglio dalle truppe francesi di Luigi Napoleone. Venezia capitolò in agosto. Tra il 1849 e il 1860 il processo risorgimentale venne dominato per un verso dal liberalismo piemontese, con a capo Camillo Cavour, e per l’altro dal repubblicanesimo democratico di Mazzini. Il contrasto, si risolse infine con la vittoria politica del primo. Dopo il 1849, mentre nel resto dell’Italia imperversava la reazione, in Piemonte, nonostante la sconfitta subita, Vittorio Emanuele II restò fedele allo Statuto albertino e al liberalismo. I tentativi di Mazzini nel 1851-53 di rilanciare l’iniziativa dei democratici fallirono sistematicamente. Per contro Cavour seppe dare una guida ferma ed efficace al liberalismo piemontese. Entrato nel governo d’Azeglio nel 1850, nel 1852 diventò primo ministro. Il regno preservò con lui le libere istituzioni, diventando la patria degli esuli perseguitati. Economicamente conobbe un notevole sviluppo, anche in campo industriale. Grandi furono inoltre i progressi delle ferrovie. Fu altresì migliorata l’efficienza delle istituzioni. Nel 1855 Cavour inviò truppe in Crimea in appoggio a quelle di Francia e Inghilterra in lotta con la Russia, così da poter sollevare, al congresso di Parigi del 1856, che pose fine alla guerra, la questione italiana e sottolineare il ruolo guida del Piemonte nel processo di rinascita nazionale. Nel 1857 la fondazione della Società nazionale, a cui aderì Garibaldi, pose le premesse perché molti democratici si volgessero verso il Piemonte. L’indebolimento di Mazzini, che nel 1853 aveva fondato il Partito d’azione, venne gravemente accentuato dall’insuccesso della spedizione di Carlo Pisacane nel sud (1857). Cavour, indirizzato verso l’espansione del regno e la creazione di un regno dell’alta Italia, nel 1857 ruppe le relazioni diplomatiche con l’Austria e nel 1858 strinse accordi a Plombières con Napoleone III. Nel 1859 scoppiò la seconda guerra di indipendenza che portò i franco-piemontesi alle vittorie di Magenta, Solferino e San Martino. L’Italia centrale insorse. Ma in luglio Napoleone III, cedendo alla pressione dei clericali francesi e per timore di una reazione prussiana, decise unilateralmente l’armistizio di Villafranca, inducendo Cavour per protesta alle dimissioni. La Lombardia venne ceduta dall’Austria al Piemonte, tramite la Francia. Non così il Veneto. Cavour tornò al potere nel gennaio del 1860. In seguito a plebisciti, si ebbe l’annessione al Piemonte della Toscana, dell’Emilia e dei ducati. Nizza e Savoia furono cedute, quali compensi per l’alleanza, alla Francia. Il regno delle Due Sicilie entrò in grande fermento. E nel maggio del 1860 Garibaldi, con un migliaio di seguaci (le camicie rosse), segnando così la ripresa politica delle forze democratiche, partì da Quarto per la Sicilia, che conquistò rapidamente, stabilendovi la propria dittatura. Cavour, già ostile all’impresa per motivi politici e internazionali, di fronte al suo successo accettò il fatto compiuto, operando per assicurarne i frutti al Piemonte monarchico. Il re borbone, Francesco II, dimostrò una totale incapacità politica. Sbarcato in Calabria, Garibaldi entrò in settembre a Napoli, mentre le truppe piemontesi occuparono l’Italia centrale. Nella battaglia del Volturno (ottobre), i borbonici furono completamente disfatti. Garibaldi, in nome delle esigenze dell’unità nazionale, accettò, contro il parere di Mazzini, l’annessione del Mezzogiorno al Piemonte, incontrando Vittorio Emanuele a Teano (ottobre). Il 17 marzo 1861 il parlamento italiano proclamò re d’Italia Vittorio Emanuele II, sanzionando così la raggiunta unità nazionale (pur senza il Veneto e Roma) e la vittoria politica dell’iniziativa liberal-monarchica cavouriana, che fece nascere la nuova Italia dall’unione al Piemonte monarchico delle altre regioni, nei confronti di quella democratico-repubblicana mazziniana, che avrebbe voluto che le istituzioni del paese finalmente unito nascessero da una Assemblea costituente eletta dal popolo.